strumenti alternativi al testamento per indirizzare la devoluzione del proprio compendio ereditario
Lo Studio Legale Avvocato Marco Porcari inizia la sua attività nell'aprile 1996 a Torino,C.so Duca degli Abruzzi n°6 bis, ed a Settimo T.se, via Leinì n°19. L'Avvocato Marco Porcari, dopo aver maturato le esperienze di cui al curriculum vitae, che verrà brevemente illustrato, ed aver collaborato con il compianto Avv. Luciano Porcù, esperto nel campo tributario, tra il 1993 ed il 1996, si è proposto la finalità, all'avanguardia con i tempi, di creare una struttura multidisciplinare in grado di fornire un servizio di prima necessità alle imprese ed ai privati nel settore giuridico e tributario.
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strumenti alternativi al testamento per indirizzare la devoluzione del proprio compendio ereditario

strumenti alternativi al testamento per indirizzare la devoluzione del proprio compendio ereditario

Perché, e in che modo, provvedere in vita all’assetto patrimoniale della ricchezza successoria mediante l’utilizzo di strumenti alternativi al testamento ?

 

Riconoscimento della proprietà privata come base del diritto successorio.

Diversamente da quanto si possa pensare, la regolamentazione relativa alla trasmissione della ricchezza per il tempo in cui si avrà cessato di vivere desta interesse in quanto rispecchia l’intero sistema sociale ed economico di un Paese.

            La materia è strettamente legata al riconoscimento ed alla valorizzazione che un determinato sistema socio politico intende attribuire alla proprietà privata.

            Nel nostro sistema la norma primaria di riferimento in materia di proprietà privata, che legittima, altresì, la trasmissione ereditaria della ricchezza è l’articolo 42 della costituzione che recita:

“La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità”.

Tale articolo fu congeniato – per chi fosse interessato – dalla IV commissione dell’assemblea Costituente della quale i principali artefici furono Antonio Segni, Paolo Emilio Taviani ed Emilio Colombo.

A questa norma si deve aggiungere l’art.832 del codice civile che individua il “contenuto del diritto” di proprietà, ai sensi del quale: “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.

            Appare subito evidente una dicotomia del contenuto del diritto di proprietà atta ad atteggiarsi diversamente a seconda del contesto storico, politico e sociale in cui il diritto stesso viene inteso nella sua interezza.

            Intendo riferirmi alla circostanza che il combinato disposto, la crasi per intenderci, tra le due norme citate da un lato valorizza l’autonomia privata del singolo, laddove prevede che la proprietà privata, come diritto di godere in modo pieno ed esclusivo del bene, è riconosciuta ed è garantita dalla legge, dall’altro valorizza la funzione sociale che la proprietà privata deve assumere, che viene attuata mediante i “limiti” previsti dall’ordinamento giuridico al diritto di proprietà.

            Appare evidente che, a seconda del contesto storico politico in cui ci troviamo, il legislatore tenderà a valorizzare uno o l’altro aspetto con la conseguenza che l’autonomia privata potrà essere esaltata al massimo o compromessa, in favore della funzione sociale, al punto tale da risultare quasi svuotata di contenuto.

            Per comprendere al meglio il concetto sopra schizzato, basti osservare ciò cha accade in economie pianificate come quella della ex Unione Sovietica, in cui la proprietà privata era compromessa al punto tale da essere riconosciuta soltanto in relazione agli effetti personali, essendo valorizzata al massimo la funzione sociale della proprietà stessa, in larga misura pubblica.

            In un tale contesto appare evidente che non si poteva parlare da trasmissione ereditaria della ricchezza in considerazione del fatto che non sussistevano beni di proprietà dei privati oggetto di una possibile successione ereditaria.

            Come il nostro legislatore attua il seguente principio costituzionale: “La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità” ?

            La Costituzione repubblicana, che come è noto è la fonte normativa gerarchicamente sovraordinata, impone che il legislatore nel disciplinare la trasmissione della ricchezza per il tempo in cui un soggetto avrà cessato di vivere, normi la successione ereditaria salvaguardando tre indefettibili valori:

  • l’autonomia privata di ciascun soggetto, in virtù del quale ciascuno di noi deve poter essere libero di lasciare i propri beni per il tempo in cui avrà cessato di vivere a chi ritiene più idoneo a riceverli;
  • la tutela della famiglia “nucleare” – per famiglia nucleare si intente quella composta da figli genitori e coniuge -, in virtù del quale dalla trasmissione della ricchezza per il tempo in cui un soggetto avrà cessato di vivere non possono, in ogni caso, essere esclusi totalmente i soggetti legati da uno stretto vincolo di sangue e di coniugio con il de cuius;
  • la tutela della collettività, in virtù del quale la trasmissione della ricchezza di un soggetto per il tempo in cui avrà cessato di vivere non potrà non tenere conto della funzione sociale della proprietà privata come sopra succintamente illustrata e delineata.

Vediamo con quali strumenti normativi il legislatore soddisfa la realizzazione dei tre valori sopra elencati, per poi andare ad analizzare in particolare il terzo ed andare ad individuare gli istituti che il nostro ordinamento pone a nostra disposizione per esaltare l’autonomia privata e realizzare al meglio le finalità che ci siamo preposti in sede di trasmissione della nostra ricchezza mobile per il tempo in cui avremo cessato di vivere.

In primo luogo la normativa tradizionale per realizzare il valore di cui al punto 1) è la disciplina della c.d. successione testamentaria; già nel 2012 quando avevo dissertato sull’argomento, avevo spiegato “come quanto e perché” fare testamento; oggi vedremo quali sono gli altri strumenti che ci consentono di pianificare in vita la nostra successione ereditaria, oltre al testamento, e che magari possono risultare, per certi versi, più adatti alle nostre esigenze.

Per il valore di cui al punto 2) – tutela della famiglia nucleare – il nostro legislatore ha approntato il complesso normativo sulla successione “necessaria” che dispone che una quota – c.d. riserva – debba comunque essere riservata a determinati soggetti – i c.d. “legittimari” -; l’ordinamento predispone, altresì, gli strumenti di tutela di cui possono disporre coniuge, figli e genitori, laddove vedano lesa la loro quota riservata – c.d. lesione di legittima – consistenti nell’azione giudiziaria volta a ridurre la porzione in esubero lasciata ad altri soggetti – c.d. azione di riduzione -.

Per garantire la finalità sociale alla trasmissione della ricchezza, oltre alla norma residuale che prevede che l’eredità in assenza di testamento e di parenti entro il sesto grado si devolve allo Stato, il legislatore non poteva non utilizzare uno strumento migliore se non quello del gettito fiscale, strumento tradizionalmente preposto alla ridistribuzione della ricchezza nell’ambito della collettività.

Lascio a Voi ogni valutazione se e in che misura sia giusto, sia legittimo che le ricchezze dei padri passino ai figli o se sia più consono che le stesse vengano devolute solo ed esclusivamente a chi il de cuius ritiene meritevole o se sia maggiormente apprezzabile che le stesse vangano ripartite nell’ambito della collettività; si tratta di valutazioni di carattere politico nelle quali non mi addentro.

Mi limito ad enunciare i vari criteri e le varie soluzioni adottate e la circostanza che il nostro legislatore ha cercato di contemperare equamente, per quanto possibile, le opposte esigenze e le opposte scuole di pensiero.

La realizzazione della finalità sociale della trasmissione ereditaria della ricchezza.

La storia recente dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni in Italia è stata piuttosto travagliata, ma con un chiaro trend.

L’imposta sulle successioni e donazioni fu prima disciplinata dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, e poi sostituita dal Testo Unico approvato dal D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, in vigore dal 1° gennaio 1991.

Con la legge n. 383 del 18 ottobre 2001 l’imposta sulle successioni e donazioni è stata abrogata, per poi rivivere, sia con caratteristiche ormai consolidate che con tratti nuovi (aliquote, modalità di calcolo, ecc.) con l’articolo 2 del D.L. n. 262 del 2006, convertito dalla legge n. 286 del 2006.

Attualmente, l’imposta sulle successioni, disciplinata da regole generali, contenute nel D.Lgs. n. 346 del 1990 e da disposizioni particolari, previste dai commi da 47 a 51 dell’art. 2 del D.L. n. 262 del 2006, ha, come presupposto, i trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte, mentre l’imposta sulle donazioni colpisce la donazione e gli altri atti di liberalità stipulati in forma scritta.

Nella sua struttura attuale, quindi, l’imposta di successione e donazione si applica a tutte le quote ereditarie e le donazioni tra persone vive, con franchigia per ciascun beneficiario.

I trasferimenti tra parenti in linea diretta che superano il milione di euro vengono tassati al 4%; se gli interessati sono fratelli, l’aliquota si alza al 6% e la franchigia si abbassa a 100mila euro; se i soggetti sono parenti fino al quarto grado, l’aliquota rimane al 6% ma senza franchigia. Lo stesso vale per i trasferimenti verso tutti gli altri soggetti, ma con aliquota all’8%.

La tassazione italiana sull’eredità è considerata generosa, non solo per i bassi livelli delle aliquote e le alte franchigie, ma anche per la lista dei beni che sono esenti da imposta – particolarmente rilevante l’esenzione delle aziende, dei rami aziendali e delle quote di controllo in società di capitali qualora i beneficiari intendano proseguire nell’esercizio dell’attività per almeno cinque anni – e per il principio catastale di calcolo del valore degli immobili, non aggiornato ai crescenti valori di mercato.

Da un punto di vista teorico, la letteratura economica si interroga da tempo su quale sia il livello di tassazione ottimale, senza aver ancora raggiunto un consenso univoco.

Non mancano recenti studi che stimano come in Francia e negli Stati Uniti l’aliquota ottimale sia fra il 50 e il 60%.

Dato il trend di concentrazione della ricchezza comune a tutti i paesi occidentali e la rappresentatività di Francia e Stati Uniti dei modelli europei continentali e anglosassoni, questo risultato appare generalizzabile al contesto europeo e italiano.

Attualmente le imposte sulle eredità in Italia sono tra le più basse al mondo.

Va però considerato che in Europa, negli ultimi decenni, c’è stata una convergenza verso la riduzione dell’imposta di successione; in particolare, Portogallo, Svezia, Austria, Repubblica Ceca e Norvegia hanno abolito la tassa sull’eredità; in Svezia e Norvegia le principali critiche che hanno portato all’abolizione riguardavano la natura non del tutto redistributiva, in quanto la tassa risultava onerosa per le classi medie e facile da eludere per la parte più alta della distribuzione.

Sono al vaglio del legislatore proposte per rendere l’imposta di successione più redistributiva e per includere nell’imponibile vari beni oggi esentati, onde rendere più difficile l’utilizzo di facili scorciatoie.

In questo periodo storico in cui l’economia globale subisce la crisi della pandemia, si parla molto di c.d. tassazione “patrimoniale” finalizzata alla rapida ridistribuzione della ricchezza tra le varie classi sociali; se la “patrimoniale” – come credo – non venisse attuata, in quanto sul punto le forze politiche sono sempre discordi, tuttavia non vedo come non potrebbe essere realizzato un considerevole aumento delle aliquote dell’imposta di successione e donazione, con l’alibi legittimato dalla circostanza che in Italia tale tassazione è – tradizionalmente – la più bassa d’Europa.

Conseguentemente si pone il problema di come realizzare in vita le finalità che attuino il passaggio generazionale della ricchezza onde meglio pianificare la propria successione ereditaria, realizzando gli opposti interessi ed evitando, legittimamente, di subire un considerevole pregiudizio fiscale a carico dei nostri beneficiari.

Come provvedere all’assetto patrimoniale della ricchezza per il tempo in cui si avrà cessato di vivere; quali sono gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento giuridico ?

Il testamento.

Lo strumento tradizionale per disporre delle proprie sostanze per il tempo in cui si sarà cessato di vivere è il testamento, di cui abbiamo già ampiamente parlato nel 2012 e che comunque – essendo lo strumento tradizionale – ricade a pieno nelle dinamiche impositive cui si è sopra fatto cenno.

Il testamento può essere:

  • pubblico – redatto da un notaio alla presenza di due testimoni -;
  • segreto – ricevuto da un notaio in busta chiusa che ne verbalizza l’acquisizione alla presenza di due testimoni;
  • olografo – scritto di pugno, datato e sottoscritto dal testatore.

Tutte e tre le forme di testamento hanno la stessa efficacia; la terza è la più agile, non richiede la presenza dal notaio; è consigliabile nominare nel testamento un “esecutore testamentario” – generalmente un avvocato o un commercialista – che si prenda cura di dare esecuzione alle disposizioni testamentarie dopo il decesso dello stesso testatore.

Il testamento è sempre revocabile o modificabile in qualsiasi momento fino in punto di morte, la revoca o la modifica deve recare la forma scritta; un semplice testamento olografo – scritto di pugno su un foglio – può revocare un testamento pubblico o un testamento segreto ricevuto dal notaio o – ovviamente – un precedente testamento olografo.

 

La donazione, come anticipazione ereditaria attuata in vita.

Consiste – salvo che per beni di modico valore –  nell’atto pubblico redatto da un notaio alla presenza di due testimoni.

Consente di fare in vita delle anticipazioni sulla propria successione ereditaria.

Un aspetto molto importante in relazione a quanto sopra illustrato in merito alla possibilità di ridurre l’eventuale gettito fiscale relativo alla trasmissione della ricchezza successoria è rappresentato, proprio in materia di donazione, in una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione.

Il Supremo Collegio, con l’ordinanza numero 22738 pubblicata il 20 ottobre 2020, interviene su una fattispecie, in tema di imposta di successione, che può interessare molti contribuenti in una situazione di passaggio generazionale del patrimonio mortis causa.

Il caso concreto è rappresentato dalla dichiarazione di successione da parte degli eredi, a causa della morte del genitore di questi, il quale però, mentre era ancora in vita, aveva effettuato delle donazioni ai figli.

L’Agenzia delle Entrate ha contestato la dichiarazione di successione, ritenendo che le donazioni precedentemente avvenute dovessero essere inserite nel computo delle franchigie di non imponibilità, rideterminando l’imposta di successione dovuta per la parte (di conseguenza maggiore) eccedente le stesse.

La contestazione dell’Agenzia delle Entrate si basava sul fatto che secondo il comma 4 dell’articolo 8 del Decreto Legislativo 346/1990 “il valore globale netto dell’asse ereditario è maggiorato, ai soli fini della determinazione delle aliquote applicabili a norma dell’art. 7, di un importo pari al valore attuale complessivo di tutte le donazioni fatte dal defunto agli eredi e ai legatari”.

Questa norma, con finalità antielusiva, oggi non ancora abrogata, inserita nell’ordinamento quando per l’imposta di successione erano previste delle aliquote progressive, prevedeva che, ai soli fini della determinazione delle suddette aliquote, le donazioni precedenti alla successione fossero inserite nel cumulo.

L’Agenzia delle Entrate, interpretando estensivamente questa norma, ancora in vigore, ha ritenuto che questa fosse una sufficiente base giuridica per attrarre alle franchigie di non imponibilità le precedenti donazioni.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 22738/2020, esclude questa possibilità, puntualizzando che, essendo intervenuta la soppressione del sistema dell’aliquota progressiva (in tema di imposta di successione), debba, di conseguenza considerarsi implicitamente abrogato l’articolo prima citato, che prevedeva il cumulo di quanto donato con quanto ereditato, “attesa la sua incompatibilità con il regime impositivo caratterizzato dall’aliquota fissa sul valore dell’asse”.

Per di più, l’articolo in questione, non aveva l’obiettivo di attrarre alla base imponibile dell’imposta le precedenti donazioni, ma solo ad evitare politiche elusive, al fine di determinare una corretta aliquota progressiva per quanto comunque solo ereditato. Con l’interpretazione estensiva attribuita al disposto normativo dall’agenzia, invece, di fatto, le precedenti donazioni vengono attratte all’imposta di successione, cosa che appare, contrario alla ratio della norma stessa, che, in ogni caso, oggi, per le motivazioni prima esposte, dovrà essere considerata implicitamente abrogata “per incompatibilità normativa applicativa di una disposizione per effetto della formale modificazione del regime impositivo di riferimento”.

In definitiva, in base all’ordinanza 22738/2020 della Corte di Cassazione(civile), è da escludere che le donazioni in vita possano essere attratte all’imposta di successione, erodendo le franchigie di non imponibilità previste.

Quindi, in virtù del recente pronunciato sopra riportato, si può, in prima battuta, considerare il tradizionale strumento della donazione delle proprie sostanze in vita come un validissimo strumento anticipatorio di future disposizioni successorie, forti anche del fatto che, ai fini fiscali, tali donazioni non erodono le franchigie.

In sostanza chi avesse grandi patrimoni da trasmettere per successione ereditaria potrebbe fare una pianificazione e ripartire i trasferimenti tra donazioni fatte in vita e disposizioni testamentarie, facendo attenzione a contenere il compendio oggetto di queste ultime sotto le soglie delle franchigie proprie dell’imposta di successione.

 

I patti di famiglia, come strumento finalizzato a regolamentare in vita la ricchezza imprenditoriale.

Con la legge 14 febbraio 2006 n. 55 – durante il terzo governo Berlusconi -, è stato introdotto nel nostro ordinamento il “patto di famiglia” (artt.768 bis e segg. C.c.).

L’istituto, che sembra talvolta dimenticato, ha una importante valenza soprattutto nell’ambito delle famiglie i cui membri esercitano l’attività d’impresa.

Il patto di famiglia è un contratto, stipulato per atto pubblico, con il quale si realizza una sorta di successione anticipata.

Più precisamente, l’articolo 768 bis del codice civile dispone che il patto di famiglia è il contratto con il quale l’imprenditore, o il titolare di partecipazioni societarie, trasferisce la propria azienda o le partecipazioni a un discendente.

Si tratta della possibilità per un imprenditore di gestire il passaggio generazionale della propria impresa, trasferendo ad uno o più discendenti l’azienda o le quote di partecipazione al capitale della “società di famiglia”, senza che vi possano essere contestazioni in sede di eredità.

È una novità importante nel sistema del diritto successorio: nel nostro Paese è infatti piuttosto diffusa la presenza di imprese a carattere “familiare”.

Pur incidendo notevolmente sulla sostanza della successione testamentaria dell’imprenditore, il patto di famiglia è un contratto tipicamente tra vivi, che comporta il trasferimento immediato dell’impresa di famiglia; ovviamente l’espressa previsione normativa fa sì che il patto di famiglia non si ponga in contrasto con il divieto di patti successori.

Caratteristiche.

Il patto di famiglia deve essere stipulato per atto pubblico dal notaio a pena di nullità e vi devono partecipare coloro che sarebbero legittimari (cioè eredi che la legge prevede non possano essere esclusi, come ad esempio il coniuge e i figli) se in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore.

Il patto deve prevedere che i beneficiari assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie “compensino” gli altri partecipanti al contratto con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote riservate ai legittimari (a meno che questi non vi rinuncino in tutto o in parte).

I contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura, ossia ricevendo alcuni beni al posto del denaro; in questo caso i beni in natura assegnati a favore degli altri legittimari (non assegnatari dell’azienda) “sono imputati alle quote di legittima loro spettanti”, cioè sono da considerarsi un anticipo sulla futura eredità.

All’apertura della successione dell’imprenditore alcuni nuovi soggetti possono assumere la qualifica di legittimari dopo la stipula del patto di famiglia (ad esempio, il nuovo coniuge dell’imprenditore vedovo o celibe; nuovi figli): in questo caso costoro potranno chiedere ai beneficiari del patto di famiglia il pagamento di una somma pari al valore della quota di legittima che gli spetta per legge.

Il contratto può essere sciolto o modificato dagli stessi soggetti che vi hanno partecipato:

  • con un diverso contratto, stipulato sempre per atto pubblico;
  • mediante recesso (se previsto nel patto di famiglia) esercitato sulla base di una “dichiarazione indirizzata agli altri contraenti certificata da un notaio”.

 

Il Trust.

Il trust è un efficace strumento di garanzia e di protezione patrimoniale, costituisce un rapporto, una relazione, uno strumento di protezione patrimoniale.

Un trust si crea quando un soggetto (disponente) trasferisce dei beni ad un altro soggetto (trustee) che li deve amministrare e gestire a favore di altri soggetti (beneficiari) a cui dovrà trasferirli dopo un dato periodo di tempo, ovvero in funzione di un determinato scopo.

Riconoscimento del trust in Italia.

Il trust in Italia è riconosciuto dalla legge 16 ottobre 1989, numero 364 – di “Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985” – entrata in vigore il 1° gennaio 1992.

Sono riconosciuti dal nostro ordinamento gli effetti di un trust sottoposto ad una legge straniera; per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona con atto tra vivi o mortis causa qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico (art. 2 Convenzione).

La legge straniera.

Il trust deve necessariamente essere disciplinato da una legge che preveda l’istituto che può essere l’unico elemento straniero di un trust “interno”. Tutti gli altri elementi possono essere italiani: il disponente, il trustee, i beneficiari, i beni in trust, la lingua dell’atto istitutivo. La legge regolatrice disciplina la nomina, le dimissioni e la revoca del trustee, i diritti, gli obblighi e i doveri del trustee, i rapporti fra il trustee e i beneficiari, la modifica e la cessazione del trust, ecc.

Caratteristiche del Trust in Italia.

Il trust deve essere creato volontariamente. L’atto istitutivo può essere un atto tra vivi o un atto a causa di morte (testamento). La prova dell’esistenza del trust deve essere fornita per iscritto: l’atto istitutivo di trust deve perciò essere redatto per iscritto (non necessariamente per atto pubblico).

I soggetti del trust.

  1. Il disponente che trasferisce la titolarità di alcuni beni al trustee;
  2. il trustee che riceve i beni in trust per amministrarli, gestirli, conservarli secondo le disposizioni dell’atto istitutivo;
  3. il/i beneficiari, ovvero la finalità o scopo del trust;
  4. il guardiano, soggetto indispensabile nei trust di scopo, eventuale negli altri, con il compito di controllo sulle finalità del trust.

Gli effetti del trust.

Un trust regolato da una legge straniera è riconosciuto in Italia in virtù della Convenzione e presenta le seguenti caratteristiche relative ai beni – siano essi mobili o immobili – che risultano segregati:

  • non soggetti alle pretese dei creditori personali del trustee, in quanto separati dal patrimonio personale di quest’ultimo, non facenti parte del suo regime patrimoniale o della sua successione;
  • non soggetti alle pretese dei creditori del disponente, in quanto non facenti più parte del suo patrimonio (salva l’ipotesi di revocatoria ordinaria e fallimentare dell’atto dispositivo di beni in trust);
  • non soggetti alle pretese dei creditori dei beneficiari, sino a che costoro non ricevono tali beni dal trustee.

I beni devoluti in trust, di fatto, giacciono in un “limbo giuridico di destinazione” per un determinato periodo di tempo, coincidente con la durata del trust, ed in ciò costituisce l’effetto principale della segregazione.

Quando si ricorre al trust nell’ambito familiare ?

  • per garantire l’adempimento delle obbligazioni di mantenimento di figli naturali riconosciuti e di conviventi non coniugati;
  • per risolvere il problema dei rischi connessi al passaggio generazionale – inclinazione degli eredi a dilapidare patrimoni -;
  • per proteggere il patrimonio del professionista dai rischi connessi alla responsabilità professionale;
  • per tutelare soggetti deboli (vedi infra la legge sul “dopo di noi”);
  • per gratificare i genitori e restituire loro quanto impiegato per i figli;

Quando si ricorre al trust nell’ambito dell’impresa ?

  • per la gestione di partecipazioni societarie;
  • per la prestazione di garanzie per transazioni commerciali o finanziarie;
  • per la soluzione della crisi d’impresa;
  • per il passaggio generazionale;

Perché si ricorre al trust ?

  • per realizzare una funzione “protettiva” attraverso la segregazione dei beni affidati al trustee;
  • per assicurare che i beni siano destinati allo scopo in vista del quale il trust è stato istituito;
  • perché si tratta di uno strumento duttile e agile che si adatta alle esigenze specifiche.

I trust – in definitiva – selezionano interessi meritevoli di tutela e li proteggono meglio di quanto facciano, o possano fare, gli strumenti giuridici previsti dal nostro ordinamento.

 

Il “dopo di noi”.

In Italia, attualmente, la regolamentazione del cosiddetto “dopo di noi” è normata dalla Legge 22 giugno 2016, numero 112: “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare” – approvata, e fortemente voluta, durante il governo Renzi -.

Il “dopo di noi” stabilisce:

  • la creazione di un fondo per l’assistenza e il sostegno ai disabili privi dell’aiuto della famiglia e agevolazioni per privati, enti e associazioni che decidono di stanziare risorse a loro tutela;
  • sgravi fiscali, esenzioni e incentivi per la stipula di polizze assicurative, trust e su trasferimenti di beni e diritti post-mortem.

Per il trust – che con la disciplina del “dopo di noi” trova definitiva legittimazione nel nostro sistema giuridico, senza che più nulla possano eccepire eventuali scettici in merito – la legge prevede le stesse detrazioni riconosciute alle altre tipologie di rapporti giuridici.

Per beneficiare dell’agevolazione sarà molto importante la redazione dell’atto istitutivo del trust, che dovrà evidenziarne la finalità, e sempre nell’atto istitutivo dovranno essere specificati il soggetto responsabile della vigilanza sul trust – il c.d. guardiano -, la durata e scadenza del rapporto, che dovrà coincidere con la data di morte della persona disabile.

Le erogazioni liberali, le donazioni e gli altri atti a titolo gratuito effettuati dai privati in favore di persone rientranti nelle categorie di disabilità di cui alla legge in commento, potranno essere deducibili nella misura massima del 20 per cento del reddito imponibile e di 100.000 euro annui.

Il contratto fiduciario applicato alla legge sul “dopo di noi”: un trust tutto italiano.

A dare il via libera al conferimento all’affidatario del patrimonio stanziato dai genitori per garantire un futuro al figlio affetto da autismo è stato un Giudice Tutelare di Genova.

Ma il “dopo di noi” è solo una delle tante applicazioni del nuovo strumento negoziale che mette al centro della segregazione patrimoniale il programma al quale è finalizzato l’affidamento fiduciario.

La legge italiana ha delle rigidità che con il contratto di affidamento si possono superare.

È il caso dei conviventi more uxorio che non possono avvalersi dello strumento del fondo patrimoniale, convezione matrimoniale a cui possono accedere solo le coppie sposate; il contratto può essere utilizzato anche per soddisfare in modo più efficiente l’interesse dei creditori o delle imprese, soprattutto medie e piccole, per assicurare la continuità: affidando l’azienda al fiduciario si evita la dispersione garantendo i proventi e la titolarità dell’impresa ai figli dell’imprenditore; inoltre è uno strumento deflattivo, perché elimina le possibilità di contenzioso, l’intervento del giudice, non in chiave giudiziaria, è limitato ai casi di incapacità, interdizione o di minori di età.

Diverse sono le ragioni per cui il contratto di affidamento fiduciario può essere affiancato, e talvolta preferito, al trust.

Si pensi, in primo luogo, all’“autarchia”: “è certamente un vantaggio il fatto che non esista una necessità di rinviare ad una legge straniera come avviene per il trust; il contratto fiduciario, proprio perché più comprensibile, è di più facile accesso anche per le fasce sociali più deboli; da parte sua il “nuovo negozio” ha anche una grande trasparenza; la causa della fiducia emerge, infatti, in modo chiaro e il programma è al centro dell’istituto”.

Se si pensa che il 70% del patrimonio mondiale privato è affidato ai trust si capisce quali sono le possibilità di sviluppo del negozio fiduciario che non esito a definire un “trust tutto italiano”.

Un negozio in cui i legali (avvocati e notai) possono giocare un nuovo ruolo, non solo come “redattori” del contratto ma anche come “affidatari” dei patrimoni; la sfida è dunque far conoscere il nuovo strumento e allargare il campo di applicazione al contratto riconosciuto, intanto dal giudice tutelare, come lo strumento più adatto a garantire il minore con handicap.

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