Avvocato Porcari Marco | Unioni di fatto: l’esercizio dell’attività d’impresa e lavorativa in genere
Lo Studio Legale Avvocato Marco Porcari inizia la sua attività nell'aprile 1996 a Torino,C.so Duca degli Abruzzi n°6 bis, ed a Settimo T.se, via Leinì n°19. L'Avvocato Marco Porcari, dopo aver maturato le esperienze di cui al curriculum vitae, che verrà brevemente illustrato, ed aver collaborato con il compianto Avv. Luciano Porcù, esperto nel campo tributario, tra il 1993 ed il 1996, si è proposto la finalità, all'avanguardia con i tempi, di creare una struttura multidisciplinare in grado di fornire un servizio di prima necessità alle imprese ed ai privati nel settore giuridico e tributario.
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Unioni di fatto: l’esercizio dell’attività d’impresa e lavorativa in genere

Unioni di fatto: l’esercizio dell’attività d’impresa e lavorativa in genere

Alla luce della nuova normativa di cui alla legge numero 76/2016 c.d. Legge Cirinnà

 

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La nuova disciplina in materia di unioni civili è oramai legge; è stata pubblicata nella G.U. n. 118 del 21 maggio 2015 la Legge 20 maggio 2016, n. 76 recante la regolamentazione delle “unioni civili” tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle “convivenze di fatto”; sulla Gazzetta Ufficiale del 27 gennaio 2017 sono stati pubblicati i decreti legislativi attuativi entrati in vigore l’11 febbraio 2017. Nonostante il chiaro intento del titolo e contrariamente a quanto costituiva invece obiettivo originario della nuova disciplina, la legge ha inteso regolare in modo più specifico proprio le unioni civili tra persone dello stesso sesso, estendendo solo a questa unione alcune garanzie, diritti e tutele previste dalla legge per i rapporti di “coniugio”, con tutte le più importanti implicazioni in materia di gestione del rapporto di lavoro che si possono facilmente intuire dal punto di vista amministrativo, mentre ha scelto di regolare in modo per così dire più “fluido” la posizione dei “conviventi di fatto”. La legge è organizzata in un unico articolo: 1) i commi dall’1 al 35 sono destinati alle unioni civili tra persone dello stesso sesso quale “specifica formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione”; unioni che si formalizzano mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale dello stato civile e alla presenza di due testimoni, attestate mediante certificazione da parte dell’anagrafe nella quale vengono riportati i dati anagrafici delle parti e dei loro testimoni, il regime patrimoniale scelto e la residenza, così come avviene in caso di matrimonio (civile o religioso che sia); 2) i commi da 36 a 65 sono destinati alle convivenze di fatto intendendosi per tali due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile che possano attestare la stabile convivenza sulla base della dichiarazione anagrafica prevista dall’art. 4, e dall’art. 13, comma 1, lett. b) del D.P.R. n. 223/1989; 3) i commi finali sono dedicati alle disposizioni finanziarie e danno conto, in particolare, degli oneri di natura previdenziale e assistenziale derivanti dalla nuova disciplina ma con prevalenza sull’incidenza delle disposizioni contenute nei commi da 11 a 20 dell’art. 1; quelli di maggiore rilevanza in materia di spesa previdenziale corrente e futura nonché in materia di gestione del rapporto di lavoro in materia di unioni civili. Proprio tenendo conto di tale prima distinzione, non mancano alcune anomalie – anche in ottica costituzionale – della nuova disciplina, soprattutto se si pensa che, ad eccezione di una limitata estensione alle convivenze
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di fatto della disciplina in materia di impresa familiare (nuovo art. 230 ter c.c.) e alla possibilità di regolare alcuni aspetti del regime patrimoniale mediante il “contratto di convivenza” – che peraltro non può regolare il caso “morte” costituendo quest’ultima un’ipotesi, invece, di risoluzione del contratto – nel caso delle convivenze di fatto non è prevista alcuna forma di tutela previdenziale, espressamente disciplinata, invece, con specifica previsione di spesa dai commi 66 e 67, per le unioni civili. Omissione voluta dal legislatore ma che non si comprende appieno soprattutto tenendo conto dell’importanza che potrebbe avere, anche per tali situazioni giuridiche, l’estensione dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. e l’applicazione – ad esempio, in analogia al diritto all’assistenza in caso di malattia previsto dai commi 39 e 40 – delle disposizioni dell’art. 33 della L. n. 104/1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) o dell’art. 42 del D.Lgs. n. 151/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), che troveranno invece applicazione alle unioni civili. Ma vediamo allora più in dettaglio quali saranno le implicazioni in materia di gestione del rapporto di lavoro subordinato derivanti dalla L. n. 76/2016 e successivamente prenderemo in esame la possibilità per la “unioni civili” e per le “convivenze di fatto” di svolgere l’attività di lavoratori autonomi avvalendosi della disciplina dell’“impresa famigliare”.
“Unioni civili” e “convivenze di fatto” nel lavoro subordinato. A tal fine – con la sola esclusione, come noto, della disciplina in materia di adozione nonché di altre disposizioni del codice civile non espressamente richiamate dalla legge – la disposizione di maggiore rilevanza pratica, proprio per la sua portata generale, è quella contenuta nel comma 20 dell’art. 1 nel quale si specifica che “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Tale previsione si accompagna
a quelle più specifiche (di interesse anche dal punto di vista previdenziale e assistenziale) contenute nei commi da 11 a 19 del medesimo art. 1. Commi nei quali, con analogia rispetto a quanto previsto dagli artt. 143 e ss del codice civile il legislatore regola lo status civile e familiare delle persone dello stesso sesso unite civilmente. Le conseguenze esplicite e implicite che si ricavano dalla legge a favore degli uniti civilmente sono dunque le seguenti.
A) Indennità sostitutiva del preavviso e trattamento di fine rapporto. La legge riconosce espressamente (art. 1, comma 17) il diritto al pagamento delle indennità previste dagli artt. 2118 e 2120 c.c. in caso di morte del prestatore di lavoro; non solo, in caso di scioglimento del vincolo (analogamente a quanto avviene in caso di divorzio), l’attribuzione del diritto all’assegno di mantenimento comporterà, in assenza di matrimonio o di una nuova unione civile, il diritto al pagamento di una quota parte del trattamento di fine rapporto dell’ex coniuge (in pratica il 40% del Tfr riferito agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con l’unione civile).
B) Congedo matrimoniale. Alle unioni civili troverà applicazione la disciplina in materia di congedo matrimoniale, dopo il necessario adeguamento da parte della contrattazione collettiva trattandosi di disciplina che, nata per gli “operai” ha trovato via via estensione anche alla categoria degli impiegati solo ad opera di un accordo interconfederale e della contrattazione collettiva di settore (AI 31 maggio 1941).
C) Recesso datoriale. Troverà inoltre applicazione la disciplina in materia di nullità del recesso datoriale comunicato nel periodo in cui vige la tutela, così come disciplinata dall’art. 35 del D.Lgs. n. 198/2006, ossia entro l’anno dall’avvenuta celebrazione dell’unione civile.
D) Diritti conseguenti alla sospensione del rapporto di lavoro. L’equiparazione del rapporto di coniugio derivante dal matrimonio e l’ampia formulazione della norma sopra riportata comporterà poi l’estensione agli uniti civilmente anche di tutti i diritti conseguenti alla sospensione del rapporto di lavoro così come previsti dalla legge per il “coniuge” quali ad esempio: a) le disposizioni in materia di permessi per l’assistenza in caso di disabilità accertata del coniuge (ai sensi dell’art. 33 della L. n. 142/1990); b) le disposizioni dell’art. 4 della L. n. 53/2000 e del
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D.M. n. 278/2000 per l’ipotesi dei permessi in caso di lutto e di eventi particolari; c) le disposizioni dell’art. 42, comma 5 e segg. del D.Lgs. n. 151/2001 in materia di trattamento economico per l’assistenza, da parte del coniuge, a persona affetta da disabilità accertata (entro il limite massimo di due anni); d) le disposizioni dell’art. 8, comma 4 del D.Lgs. n. 81/2015 regolante la priorità a richiedere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale per le necessità di assistenza al coniuge affetto da patologie oncologiche.
E) Pensione. Il diritto alla pensione ai superstiti ex art. 13 del R.D.L. n. 636/1939, nella forma della pensione di reversibilità (in caso di morte del pensionato) ovvero indiretta (in caso di morte dell’assicurato non titolare di pensione). Ma anche il diritto per il coniuge alla rendita ai superstiti in caso di infortunio dal quale derivi la morte del lavoratore (ai sensi degli artt. 85, 105 e 106 del D.P.R. n. 1124/1965).
F) Trattamenti di famiglia. Il diritto ai trattamenti di famiglia (Assegni per il Nucleo Familiare, ex art. 2 del D.L. n. 69/1988 convertito in L. n. 153/1988 e relativa disciplina di settore) e alle detrazioni previste per legge per i familiari a carico ex art. 12 del D.P.R. n. 917/1986.
Tali effetti conseguono anche a seguito di rettificazione anagrafica di sesso qualora i coniugi abbiano manifestato di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili. In tal caso, al precedente status di “coniuge” derivante dal matrimonio, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile così come regolata dalla nuova L. n. 76/2016. Appare chiaro, dal tenore della nuova disciplina e dalla breve analisi delle implicazioni che la nuova disciplina comporterà per il rapporto di lavoro che aumenteranno sicuramente gli adempimenti a carico dell’amministrazione del personale; basti solo pensare alla necessità di richiedere ovvero di adeguare tutta la certificazione necessaria ad attestare l’unione civile ovvero il passaggio all’unione civile nei casi di rettificazione anagrafica di sesso, così come quella necessaria ad attestare la cessazione degli effetti civili dell’unione, così come avviene in caso di divorzio; ma potrebbe anche, paradossalmente accadere che nei primi tempi di applicazione della nuova legge, al fine di non esporsi eccessivamente, il lavoratore preferisca non comunicare al datore di lavoro il proprio nuovo status civile se non in occasione dei soli eventi particolarmente gravi quali la morte o la disabilità accertata che daranno diritto all’accesso agli specifici
trattamenti in favore del “coniuge”, preferendo lasciare di fatto “non amministrata” una parte della propria sfera personale e familiare il cui riconoscimento giuridico ha avuto un iter così discusso e travagliato.
“Unioni civili” e “convivenze di fatto” nel lavoro autonomo. Al convivente di fatto – così come al soggetto unito civilmente – che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. Nelle unioni civili si applicano le stesse disposizioni del codice civile previste per i coniugi nell’ambito dell’impresa familiare, mentre per le convivenze delle coppie di fatto è stata inserita nella legge una specifica norma che regolamenta la partecipazione agli utili. Vediamo dunque in dettaglio come si regolamenta l’impresa familiare per le due istituzioni, unione civile o convivenza di fatto.
Unioni civili e convivenza di fatto: regole su pensioni e lavoro. All’interno dell’“unione civile”, che riguarda persone dello stesso sesso, le regole sono le stesse previste per i coniugi sposati, come sopra illustrato; lo stabilisce l’articolo 13, che riguarda il regime patrimoniale applicabile, che nell’ultimo capoverso prevede l’applicazione delle «disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile»; fra queste, è compreso l’articolo 230 bis, del codice civile, che regolamenta appunto l’impresa familiare, in base al quale: «salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato». Per quanto riguarda invece le “convivenze di fatto”, che possono riguardare persone dello stesso sesso oppure eterosessuali, interviene l’articolo 46 della legge, il quale introduce l’articolo 230 ter al codice civile, formulato nel modo seguente: «al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai
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beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato». In pratica, in entrambi i casi si configura il diritto alla partecipazione agli utili, a meno che fra i conviventi non esista già un altro tipo di contratto all’interno dell’impresa stessa; nel caso delle “coppie di fatto”, però, si applica interamente l’articolo 230 bis codice civile sopra citato, che prevede anche una serie di altre disposizioni relative al diritto di voto, alle modalità di trasferimento del diritto di partecipazione, alla divisione ereditaria, al caso di vendita dell’impresa. Quindi, per le “convivenze di fatto” le uniche regole previste sono quelle contenute nel nuovo articolo 230 ter codice civile sulla partecipazione agli utili nel caso in cui il convivente lavori all’interno dell’impresa. Per le unioni civili, invece, i diritti sono pienamente assimilati a quelli dei familiari e pertanto: a. il partner partecipa alle decisioni su impiego degli utili, gestione straordinaria, indirizzi produttivi, cessazione dell’impresa, che per legge sono adottate a maggioranza dai familiari; b. il diritto di partecipazione è intrasferibile, a meno che non avvenga a favore di altri familiari con il consenso di tutti i partecipi; c. può essere liquidato in denaro, in caso di cessazione della prestazione di lavoro o di vendita dell’azienda; il pagamento può avvenire in più annualità, se non c’è accordo fra i partecipanti, decide il giudice; d. in caso di divisione ereditaria o trasferimento d’azienda, il partner in quanto partecipante fa parte dei
familiari con diritto alla prelazione; se vuole vendere la quota sulla quale ha diritto di prelazione, applica le disposizioni previste dall’articolo 732 del codice civile e precisamente deve provvedere alla notificazione della proposta agli altri eredi con l’indicazione del prezzo; gli altri eredi possono esercitare il diritto di prelazione entro due mesi e, in caso di mancata notificazione, hanno diritto di riscattare la quota dall’acquirente.
L’introduzione dell’art.230 ter c.c. si è resa necessaria per attribuire una tutela effettiva ai conviventi di fatto che collaborino in un’attività d’impresa. Si è così risolto il contrasto formatosi in dottrina e in giurisprudenza circa l’applicabilità della disciplina dell’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c., alla convivenza more uxorio. Ai fini dell’applicabilità della nuova disciplina dell’impresa familiare è necessario che la convivenza “si instauri tra due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile”. Per l’accertamento di una stabile convivenza dovrà risultare una coabitazione dal certificato di stato di famiglia. I conviventi possono essere due persone dello stesso sesso o di sesso diverso, ma non devono aver contratto matrimonio o un’unione civile, né tanto meno essere parenti. Al fine di godere dei diritti riconosciuti dalla norma in commento, occorre che il convivente di fatto «presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente». Dalla lettura della norma, si evi
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denziano immediatamente le differenze rispetto alla disciplina contenuta nell’art. 230 bis del codice civile relativo all’impresa in cui il collaboratore è unito dal vincolo di matrimonio con l’imprenditore. In quest’ultima disposizione, infatti, si tutela il familiare che presta in modo continuativo la propria attività lavorativa nella famiglia o nell’impresa familiare. In particolare, l’attività del familiare deve essere prestata con costanza e regolarità, senza essere necessariamente un’attività esclusiva, tanto nell’impresa quanto nella famiglia, ossia anche mediante lo svolgimento di mansioni domestiche e casalinghe, purché strumentali all’esercizio dell’attività d’impresa. Nella norma in commento, invece, si richiede che il convivente presti la propria attività professionale con carattere di stabilità. Tale attività deve essere prestata all’interno dell’impresa dell’altro convivente, escludendo così rilievo al lavoro domestico o casalingo svolto all’interno della famiglia, ancorché finalizzato all’attività d’impresa. Al convivente, in base all’art. 230 ter cod. civ., è riconosciuto il diritto di partecipare agli utili e ai beni con essi acquistati, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento. Come nell’art. 230 bis cod. civ., il riconoscimento di tali diritti deve essere commisurato al lavoro prestato dal convivente nell’impresa. Analogamente a quanto disposto dall’art. 230 bis c.c., secondo il quale la normativa dell’impresa familiare non si applica ove sia configurabile un diverso rapporto, l’art. 230 ter c.c. afferma che il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. Al convivente, al contrario di quanto previsto all’art. 230 bis c.c. per il coniuge, non spetta il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e soprattutto non può vantare diritti sui beni acquistati e sugli incrementi dell’azienda.
Nessun riferimento viene fatto nella nuova norma al profilo decisionale, pertanto, il convivente non potrà prendere parte all’assunzione delle decisioni gestionali previste dall’art. 230 bis c.c. Ugualmente, non è previsto il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda.
Trattamento fiscale dell’impresa famigliare, esteso all’impresa del convivente di fatto e dell’unito civilmente. Secondo l’art. 5, co. 4 del TUIR, i redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c., limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi
dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili.
Pertanto, ai fini della tassazione, il reddito prodotto: • viene, in generale, imputato all’imprenditore/fondatore; • può essere ripartito nei confronti dei familiari collaboratori limitatamente al 49% del suo ammontare e proporzionalmente alla loro quota di partecipazione agli utili.
Tale disposizione consente all’imprenditore/fondatore di mantenere l’attribuzione di una quota non inferiore al 51% dell’ammontare complessivo del reddito prodotto, a condizione: 1) che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente, con l’indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti 2) che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta 3) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di avere prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.
Giova sottolineare come l’atto previsto dall’art. 5 del Tuir, rappresenta solo una condizione formale per l’applicazione di un determinato regime fiscale, non assumendo natura negoziale, bensì meramente dichiarativa. Come già si è evidenziato, per effetto delle nuove norme in materia di unioni civili, nell’impresa familiare è prevista l’introduzione di particolari diritti al convivente “di fatto” che presta la propria opera all’interno dell’impresa del convivente. Al convivente “di fatto” che presta stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda – anche in ordine all’avviamento – commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta se tra i conviventi esiste un rapporto di società o lavoro subordinato. Inoltre, per effetto della legge Cirinnà, il convivente di fatto potrà essere nominato: • tutore, curatore o amministratore di sostegno
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• qualora l’altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata.
Sul punto si ricorda che, ai sensi dell’art. 404 c.c., la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio.
In definitiva nell’ambito lavorativo L’unione civile costituisce il legame tra due persone dello stesso sesso unite civilmente mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile sulla base di un legame affettivo stabile con reciproca assistenza morale e materiale (articoli da 1 a 34 della legge). La convivenza di fatto è il rapporto tra due persone eterosessuali o omosessuali non unite civilmente né in matrimonio, ma da uno stabile legame affettivo di coppia con vincolo di reciproca assistenza morale e materiale (articoli da 36 a 65 della legge). Pertanto, a seguito delle modifiche introdotte dalla normativa in esame, il fondatore potrà attualmente costituire un’impresa familiare con i seguenti soggetti: • il coniuge a cui è equiparato il soggetto allo stesso unito civilmente; • gli affini entro il secondo grado; • parenti entro il terzo grado; • il convivente “di fatto”.
La maggior parte degli istituti del diritto del lavoro e della previdenza si potranno applicare in caso di unioni civili, a differenza di chi invece è soggetto alle semplici convivenze di fatto. Estensione dei diritti coniugali – La norma chiave ai nostri fini è l’articolo 1, comma 20, in base al quale, al fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, «le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Le norme del codice civile invece in cui compaiono gli stessi termini non sono automaticamente applicabili, ma solo quelle che la legge in questione richiama espressamente». Tale estensione non riguarda, però, i conviventi di fatto. Unioni civili – La coppia omosessuale potrà, pertanto,
godere di una serie di vantaggi legati ai diritti del lavoratore coniugato in matrimonio. Convivenza di fatto – Il rapporto di coppia non formalizzato nell’ambito di un’unione civile (né con il matrimonio) non fa sorgere in capo ai due partners i diritti a cui abbiamo fatto cenno, salvo l’ipotesi in cui venga tra i due costituita un’impresa familiare. In definitiva in relazione ai requisiti tecnico-professionali necessari per l’esercizio di alcune specifiche attività d’impresa il cui possesso prima della riforma era richiesto in capo al titolare della stessa e, in caso di impresa famigliare esercitata con il proprio partner, al coniuge collaboratore, a seguito della riforma tali requisiti potranno essere posseduti anche, oltre che dall’unito civilmente nel caso di coppie omosessuali, dal convivente di fatto. Quanto sopra, si verifica anche nel settore imprenditoriale relativo alla logistica ed al trasporto ed in particolare – a titolo meramente esemplificativo -., mi riferisco al requisito dell’“idoneità professionale” – ben conosciuto dal lettore del settore – necessario per l’iscrizione all’albo degli autotrasportatori per conto terzi; come è noto tale requisito deve essere posseduto dalla persona che dirige in maniera continuativa ed effettiva l’attività di trasporto e che deve ricoprire, all’interno dell’impresa, necessariamente una delle seguenti funzioni: 1. titolare dell’impresa individuale ovvero collaboratore dell’impresa familiare; 2. socio illimitatamente responsabile nelle società di persone; 3. amministratore unico o membro del Consiglio di Amministrazione per le persone giuridiche e persone private in ogni altro tipo di società o ente ovvero aziende speciali o consorzi; 4. dipendente dell’impresa, al quale siano state attribuite le mansioni di direzione dell’attività di trasporto.
A seguito della nuova normativa in esame, il “collaboratore dell’impresa famigliare” di cui al precedente punto 1) potrà essere anche il partner omosessuale nelle unioni civili e/o il convivente nelle convivenze di fatto.
In considerazione della massima semplicità che prevede la legge per la costituzione e per lo scioglimento tanto delle unioni civili quanto delle conviventi di fatto, uno spunto di riflessione per il lettore è quello relativo alle possibili distorsioni ed ai possibili abusi che la normativa stessa potrà comportare; sul punto basti pensare al soggetto che, non munito dei requisiti tecnico-professionali per l’esercizio in forma individuale dell’attività di autotrasporto per conto terzi, si avvalga vuoi di un convivente di fatto fittizio, vuoi di un partner dello stesso sesso fittizio per aggirare l’ostacolo.

FONTE: ItaliaMondo • Logistica & Intermodalità

AUTORE: Avv. Marco Porcari

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INTERVISTA: http://www.iltorinese.it/facciamo-il-punto-sulle-unioni-di-fatto/

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